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Gli Accadimenti del 1799 in Acquaviva delle Fonti

Tratto dal volume di Martino Mastrorocco e Nunzio Mastrorocco: LA NOSTRA STORIA. Cronistoria della Città di Acquaviva delle Fonti, SUMA Editore.

1799 – Le truppe francesi del generale Championnet riconquistano Roma e, dichiarata guerra a Ferdinando IV, invadono il Regno di Napoli dove viene proclamata la “Repubblica Napoletana una e indivisibile”. Presi dal panico i sovrani Ferdinando e Maria Carolina fuggono in Sicilia sotto la protezione della flotta inglese.


La cittadinanza di Acquaviva è indecisa sul da farsi: “non si aveva animo di rigettare il vecchio, ma non potea non abbracciarsi il nuovo”. La notizia che Francesco Antonio Pepe è nominato membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea e alcuni suoi appassionati discorsi alla cittadinanza infiammano la città che accoglie i nuovi ordinamenti repubblicani. Nella pubblica piazza è piantato un albero simbolo della agognata libertà (5 febbraio). Mentre ad Acquaviva l’arciprete Valerio Giustiniano Persio si schiera coi repubblicani, il clero dei paesi vicini favorisce l’azione controrivoluzionaria dei ceti popolari che, colpiti da una recessione della produzione agricola, vengono mobilitati in nome della Santa Fede (donde la denominazione di ‘sanfedisti’) contro le esili forze laiche della borghesia giacobina. E’ proprio una folla monarchica che, nei pressi di Ceglie, uccide Francesco Antonio Pepe, suo fratello Giacomo, Giovanni Scassi, Filippo Aulenta e la loro scorta mentre vi transitavano alla volta di Napoli (6 febbraio). Quando i rivoluzionari sanfedisti guidati dal sacerdote gioiese Soria e dal bandito Gianbattista De Cesare, ai quali si aggiungono le popolazioni dei paesi vicini in cerca di bottino, assediano Acquaviva, Francesco Supriani convince la popolazione a resistere. Dopo due giornate di feroce battaglia (29 e 30 marzo), e dopo aver rischiato egli stesso la vita, il De Cesare, persa la speranza di impadronirsi della città e temendo di essere colto all’improvviso dalle truppe francesi (che si diceva fossero già partite da Barletta in soccorso di Acquaviva) si accinge a togliere l’assedio quando avviene l’imprevedibile: Giuseppe Bresnaider, capo delle milizie civiche, fugge nottetempo con 40 dei suoi verso Altamura e abbandona la città senza difensori. L’indomani il popolo acquavivese scoraggiato apre le porte al nemico nella vana speranza di evitare il saccheggio. Così non è: all’alba la città è presa e devastata (31 marzo). Persino i monasteri, l’ospedale e il monte di pietà vengono depredati, l’albero della Libertà viene spiantato e bruciato, e con esso il cadavere di Francesco Supriani, morto da vero repubblicano. Dallo sterminio generale si salvano solo le case di alcuni monarchici contrassegnate da una croce bianca ed il monastero delle Benedettine dove è rinchiusa una sorella del Soria. I francesi giungono ad Acquaviva una settimana dopo e non possono fare altro che obbligare i paesi vicini a fornire al popolo acquavivese viveri e denaro.

Nel frattempo Carlo de Mari, che allo scoppiare dei tumulti si trovava a Napoli, rientra ad Acquaviva dove cerca di “animare i buoni ad armarsi, e resistere a’ Francesi e Ribelli sedicenti Repubblicani”. I “Democratici acquavivesi” cercano di ammazzarlo e così è costretto a fuggire prima a Gioia, poi a Castellaneta, Altamura e Gravina e infine a Cerignola dove viene arrestato dai repubblicani, ma dietro il pagamento della somma di 6.000 ducati riesce a fuggire verso Napoli. Qui, appena giunto, viene nuovamente arrestato per ordine del governo provvisorio. Grazie alle sue potenti amicizie riesce, comunque, a rimandare il giudizio e la sicura fucilazione fino a quando Napoli repubblicana non è costretta a capitolare all’Armata Cattolica e Reale del cardinale Ruffo.

Già da tempo, infatti, i francesi hanno abbandonato la Repubblica al proprio destino ma i patrioti rimasti soli oppongono una resistenza disperata che termina solo quando accettano una resa che garantisce loro la vita e la libertà. Tuttavia i patti vengono violati dal re che allontanatosi dalla borghesia si appoggia quasi esclusivamente sui ceti popolari, mantenendo la società meridionale in una statica immobilità.

In conseguenza di questi avvenimenti il principe di Acquaviva riottiene la libertà e la restituzione dei suoi beni dopo che in una lunga lettera al sovrano espone le sue peripezie che l’hanno portato a sfiorare ripetutamente la morte “per attaccamento a tutta l’Augustissima R.le Famiglia”. Inoltre Ferdinando IV accorda a Carlo una dilazione di tasse arretrate considerando i danni che questi “ha sofferto nella passata anarchia”. La notizia del saccheggio subìto dalla città giunge alla corte del re Ferdinando IV che con una lunga lettera, indirizzata al sindaco Domenico Casucci, esprime le sue doglianze e stanzia la somma di 43 ducati, grana 50 e cavalli 4 per sopperire alle prime spese per le urgenti necessità che l’invasione ha procurato. La somma, amministrata dal primo e dal secondo eletto, Marino Mele e Leonardo Panetta, e dai cassieri, Giovan Battista Lepore, Sebastiano Luciani e Baldassarre Novelli, viene utilizzata per effettuare le riparazioni delle porte e della muraglia che circonda Acquaviva.

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